3 luglio 2016

La Fuga di Cristian




"Mannaggia all'amore e a chi l'ha inventato", pensó Cristian mentre correva con tutto il fiato che aveva in corpo. Non aveva resistito e, mentre i genitori sonnecchiavano di fronte alla televisione, era sgattaioilato fuori di casa per andare a trovare la sua bella Marina, che non vedeva da tanti, troppi giorni ormai, con l'incoscienza della gioventú a mettere a tacere la sua voce interiore che sapeva bene quali pericoli avrebbe dovuto correre.

Le cose non erano come erano sempre state in cittá, e quell'inspiegabile invasione di esseri mostruosi aveva giá mietuto piú vittime tra i suoi amici e conoscenti. Ma Cristian non era uno qualunque: conosceva a menadito ogni vicolo e ogni scorciatoia del suo quartiere, e sapeva come fare per tenersi lontano dal radar di quegli esseri infernali, che comunque tendevano a girare in gruppo nelle vie principali. Ed infatti il suo piano aveva avuto successo: mantenendosi nell'ombra nelle strade comunque a prima vista deserte, il nostro era arrivato sotto il balcone della sua amata, e ne aveva richiamato l'attenzione lanciando un ciottolo contro la finestra. Marina si era precipitata giú per le scale e aveva spalancato la porta urlandogli contro: "Ma tu sei un pazzo! Un incosciente! Lo sai che...", ma le sue labbra erano state bloccate da quelle di Cristian, che la rispinse dentro casa chiudendo la porta alle sue spalle, sentendosi libero e vittorioso, e dopo i primi baci leggero come una pioggerella di mezza estate.

"Mannaggia all'amore e a chi l'ha inventato", pensó Cristian di nuovo. Avere la testa nascosta in un nugolo di stelle non era una cosa che nessuno poteva permettersi, in quei giorni terribili. Una volta tornato per strada, il sorriso che tagliava per intero il suo volto mentre con meno circospezione ritrovava la via di casa era scomparso in un attimo all'udire un urlo belluino e sovrannaturale provenire dall'altro lato della strada. Un secondo dopo stava giá correndo a rotta di collo, e dopo un altro secondo c'erano tre esseri che lo inseguivano, annusando la sua paura, urlando contro il cielo, sbavando sull'asfalto.

Si giró a cogliere una fugace immagine dei suoi inseguitori. Tutti e tre erano vestiti di nero, ma attaccate a quei corpi di grossa stazza c'erano tre teste differenti, mostruose e deformi. Uno dei tre aveva orride fattezze da lupo antropomorfo, con un occhio completamente iniettato di sangue. Un secondo aveva il capo fasciato da bende insanguinate come una grottesca mummia, sotto le quali pulsava della carne viva. Ma l'inseguitore che incuteva più timore aveva un teschio al posto della testa, e quelle orbite fisse e vuote gli fecero tornare in mente quella frase sull'abisso che ti fissa quando tu fissi lui. Di chi era quella frase... di Schopenauer magari? O Jim Morrison? Si rese conto che il suo cervello stava formulando centinaia di pensieri, uniti in fili logici piú o meno labili, per mantenersi occupato e non cedere davanti al terrore e alla disperazione. E nemmeno uno di quei pensieri era dedicato a quello che lo stava mantenendo in vita: le sue gambe, care e preziose gambe, che si alternavano nel sospingerlo in avanti a piccoli balzi piú che di corsa. 

Tutto era iniziato pochi giorni fa. Nessuno sapeva esattamente da dove provenissero quei mostri, ma quello che era risultato chiaro fin da subito é che era impossibile contrapporsi a loro. Nessun gruppo inclusi polizia e carabinieri, armato o meno, riusciva a trovarli: quegli strani esseri sembravano sbucare dal nulla solo quando qualche incauto si avventurava per le strade deserte da solo, o con un amico, o con la fidanzata. E quello che succedeva a quei poveri malcapitati.. no, no, no. Non voleva pensarci, non poteva pensarci. Non poteva rischiare che la paura lo inchiodasse sul posto, dopotutto era un corridore piú che discreto anche se, ciononostante, non stava riuscendo ad aumentare il divario tra lui e quegli esseri mostruosi nemmeno di un centimetro. 

Una curva a sinistra, un balzo in un vicolo, cento metri di corsa estenuante in linea retta, le stava provando tutte, ma quei tre maledetti mostri non mollavano la preda. Sembrava a modo loro stessero ridendo, nutrendosi del terrore di quell'umano di fronte a loro, magari facendogli credere che avesse una qualche speranza di seminarli o depistarli. Cristian si stava infilando in una strada senza uscita, e con luciditá mantenne la calma calcolando che entrambe le traverse sulla destra e sulla sinistra gli sarebbero servite per continuare la sua fuga disperata. Quelle che dovevano essere risate si facevano peró sempre piú vicine accompagnate a suoni gutturali, e Cristian si giró di scatto per controllare dove fossero i suoi inseguitori, rabbrividendo. I tre si erano distanziati l'uno dall'altro, e mentre il teschio continuava a correre verso di lui, gli altri due avevano tagliato in diagonale rispettivamente sulla destra e sulla sinistra, accorciando la distanza che li separava dall'imboccatura delle due traverse dove avrebbero di fatto tagliato la strada a quello stupido umano. Quanto vantaggio avevano su di lui? Visto che stavano facendo una specie di ipotenusa mentre lui stava correndo sui cateti, poteva aiutarlo Pitagora? Ecco che il suo cervello aveva ricominciato ad andare a ruota libera per non soccombere alla disperazione: doveva recuperare luciditá e mantenere la calma. 

No, doveva lasciar perdere Pitagora che magari poi non c'entrava molto e fidarsi del suo istinto: non poteva andare né a destra né a sinistra, doveva correre dritto e sperare in qualche miracolo che gli avrebbe consentito di proseguire la sua fuga, senza tra l'altro avere in mente un obiettivo definito, e cosí fece. Sentiva il cuore battergli a mille e la carenza di ossigeno nei polmoni mentre un altro rapido sguardo gli confermó che il teschio era ormai ad una quindicina di metri da lui, mentre gli altri due si erano nuovamente diretti verso il centro della strada ed avevano perduto terreno: le loro urla provenivano forse da una distanza di venticinque metri. 

Poteva girarsi per affrontarne uno e pensare poi agli altri due? Assolutamente no, non aveva nessuna speranza nemmeno nell'uno contro uno. Continuó a correre finché ogni piede poggiato a terra inizió a pesare come un macigno, finché ogni ciclo di inspirazione ed espirazione somigliava ormai ad uno stantuffo, finché... finché intravide la strada chiusa di fronte a lui. 

Ma non era finita lí. D'improvviso vide quello che non si sarebbe mai aspettato a quell'ora cosí tarda: una porta aperta ed una luce accesa che denotavano un rifugio accessibile. Con le ultimissime energie, Cristian cambió leggermente direzione e si diresse a rotta di collo verso quel santuario. Il teschio intuí subito la destinazione della preda e provó ad arrivarci per primo. Provocare una prima ferita poteva venirgli utile, e fece un movimento ad arco con il braccio: un oggetto metallico non meglio identificato balenó nel buio e mancó Cristian di pochi centimetri, sibilandogli a lato.

Il teschio cominció a capire che quell'essere insignificante avrebbe potuto sfuggirgli, ed inizió per la prima volta a correre sotto sforzo, colmando rapidamente la distanza che lo separava dall'umano. Mise la mano dietro la schiena ed afferró quello che sembrava una catena di metallo nero senziente, che inizió a roteare nell'aria vorticosamente aggiungendo un altro suono agghiacciante a quella miscela di rapidi passi disperati, di grida sovrumane, di grugniti e suoni gutturali indecifrabili. 

Per almeno due volte Cristian riuscí ad abbassare la testa evitando che la catena si avviluppasse intorno al suo collo. Per almeno altre due volte riuscí a saltare evitando che la catena lo facesse inciampare e rovinare al suolo. E l'ultimo salto lo fece ad occhi chiusi in una nuvola d'oro che gli riempí il cuore, nell'amichevole porta aperta, fuori dal regno dell'ombra e dentro la sfera protettiva di quel santuario. 

Mentre affannosamente riprendeva fiato si giró e vide il teschio contorcersi in una smorfia spaventosa, che ben manifestava tutta la sua rabbia e la sua delusione. Gli altri due intanto erano sopraggiunti, e si fermarono ai due lati del teschio osservando Cristian con aria minacciosa, ma senza osare entrare nella luce d'oro di quel rifugio. 

Cristian attese di avere abbastanza fiato per parlare, dopodiché diede le spalle ai tre mostri e si avvicinó al bancone. Si frugó nelle tasche e trovó 10.000 lire, che gli sarebbero bastate per attendere in quel posto tutto il tempo necessario perché i suoi inseguitori se ne andassero. Con voce tremante disse:

"Un trancio di margherita ed una gassosa al caffé".

Mannaggia all'amore e a chi l'aveva inventato... e pure mannaggia al Carnevale di Lamezia Terme (Calabria) e a chi ci partecipava.


24 febbraio 2016

Natale da zio Gregorio


“Ntò, nchianamu alla muntagna una i sti siri,
ca allu zzu Griguaru i quantu l’amu i vidiri?
Piglia a machina e jamu alla Taguara,
ca ancuna cosa a truvamu ca vulli nta a cuadara

Ni pijamu capaccualli e nu litru i vinu
E ancuna tagliatella ccu llu porcinu
Ordinamu pizza e fungi ccu lli patati
Ni fhacimu do chiacchiari e quattru risati”

Rispundi ‘Ntoni ccu lla vuci rutta:
“Ma tu a storia un la sa’ tutta?
Un putimu jiri né mo né ppi lla behana,
ca u zzu Griguaru ha chiusu, nculu alla puttana!”

Iu ci fhazzu: “Antò, oh madonna mia!!
Mi sta diciandu ca un putimu jiri a Platania?
E mo chi Natali è senza 'stu rituali
Portami nu bicchieri d’acqua ca mi siantu mali!”

Pua aju dittu “Armenu ci chiamu mu u salutu
ca nua llà daveru n’amu crisciutu
Dammi u numeru i Petrania
Ca ci fhazzu l’auguri ppì Natali e‘pifhania”

Mi dici illu “Viniti ccà dumani a mangiari”
E mo ici tu ca mi fhazzu prigari?
Puru ccu viantu, tempesta e nevi
E si a papà ci servi a machina ci jamu a pedi

Picchì a verità u sapiti qual è?
Ca nu puastu cumu a chistu ntro o mundu un c’è
E un lu dicu picchì mo amu vivutu
Dumandatici a chini ccà c’ha binutu

Nduvi u zzu Griguaru internet un c’ha arrivatu
E lla machina l’hai i parcheggiari sutta u bucatu
U menù senza ca u cerchi ca è sempre u stessu
E mori puru du u fhriddu si hai i jiri allu cessu

Però si teni fami ccà cumu nu rre po mangiari
Si si musciu illu teni sempre nu fattu i cuntari
Trasi ccà dintra e ti scuardi tutti li guai
Ti cangia a jurnata picchì illu un cangia mmai

U priazzu pua putia variari assai
Si ci stavi simpaticu l’antipastu un su u pagava mmai
Ma siccome oji n’aviti mbitatu,
Ccù sti paroli i nenti v’avimu pagatu!

20 febbraio 2016

Sangu - Capitolo 1



© Domenic Baham

Era curioso come ci fosse sempre qualcuno di inferiore più a sud di te. Knut Ivar Mykelbøst veniva da Bergen, incantevole, moderna e spesso bagnata città affacciata sui fiordi norvegesi, e come i suoi concittadini si sentiva superiore a quei pastoracci del Telemark, regione rurale della Norvegia del Sud. Gli abitanti del Telemark, a loro volta, ritenevano i danesi i loro cugini poveri. In Danimarca poi si sentivano superiori rispetto ai confinanti tedeschi, che si sentivano superiori agli austriaci, che si sentivano superiori ai milanesi, che Knut in questo momento stava sorvolando a bordo del volo Copenaghen – Roma, il quale non era il primo e non sarebbe stato l’ultimo aereo che prendeva, quel giorno. I milanesi poi si sentivano superiori ai romani, che si sentivano superiori ai calabresi, che si sentivano superiori ai maghrebini, che si sentivano superiori alle popolazioni nomadi del Sahara. Poi quei beduini vagando nel deserto probabilmente nemmeno lo sapevano chi ci fosse sopra o sotto di loro, quindi questa strana catena si interrompeva. Chissá se funzionava allo stesso modo in tutti i continenti? Ricordando le sue numerose partite a Risiko, Knut si chiese se le popolazioni piú fiere in Asia e America vivessero rispettivamente nella Kamchatka e nei Territori del Nord-Ovest del Canada. E nell’emisfero australe come funzionava? Magari dopo l’equatore quella legge si invertiva, e i popoli più a sud godevano di maggiore considerazione. In effetti il Sudafrica era messo meglio dello Zimbabwe, e l’Australia era messa meglio dell’Indonesia: gli sembrava una teoria sensata, che meritava di essere approfondita di persona. Aprí il suo taccuino ad una pagina cripticamente titolata ‘Ting å gjøre før jeg er 30’ e scrisse: ‘Patagonia’.

Knut Ivar era lo stereotipo dello scandinavo: i suoi capelli biondissimi e piuttosto lunghi gli incorniciavano un volto dalla carnagione chiara, dominato da due grandi occhi del colore dell’acqua profonda dei fiordi norvegesi. Le sue spalle erano ampie e regolari, e il suo fisico slanciato era palesato dalle ginocchia appoggiate al sedile che aveva di fronte: lo spazio che aveva a disposizione per le sue gambe in quel modello vecchiotto di DC9 dell’Alitalia era per lui limitato. Un’ispida barbetta, anch’essa bionda, gli conferiva un certo fascino bohemien, senza però farlo apparire trasandato. Vicino a Knut era seduta un’affascinante ragazza mora con il trucco piuttosto pesante, probabilmente romana, che distrattamente in quel momento stava osservando le nuvole fuori dalla cabina passeggeri. Lo scandinavo, che si trovava vicino al finestrino e quindi nella traiettoria dello sguardo della giovane, si rivolse a lei in un italiano approssimativo, mostrandole quello che aveva appena scritto sul block notes:

“Questø in norvegese sigh-nifica ‘cosa da fare prima trenta ani’, io faccio lista. Questø qui cancelatø è ‘partire per viagiø esoticø da solo’… io adesso vado a Calabria! Mi hanno detto che come Messicø ma più vicinø. Sole, mare, pistole, peperoncinø...

Knut mimò una pistola che faceva fuoco ripiegando il pollice della mano sinistra sull’indice disteso e sorrise. La ragazza guardò il block notes sotto il suo naso limitandosi a ruotare gli occhi verso il basso, prima di riportarli sul finestrino senza rispondere: sembrava più interessata ad osservare i candidi cumuli nei quali l’aereo si stava tuffando come in un mare di panna montata. Knut non si perse d’animo e continuò:

“Mio cuginø prestato casa in Calabria, io viaggiare solo. Io in mare sport kite surf, conosci?”, disse chiudendo le mani sopra la sua testa su una barra orrizzontale immaginaria, mimando di essere alle prese con un kite surf. Suo cugino Øyvind gli aveva assicurato che, al solo nominare quello sport, qualunque pulzella mediterranea sarebbe caduta ai suoi piedi, soprattutto pronunciandolo con accento nordico. La ragazza stavolta lo guardò ma sembrava più scocciata che altro: forse non aveva fatto l’accento abbastanza nordico? O più probabilmente la sua interlocutrice ignorava cosa fosse un kite surf? La seconda opzione sembrava la più probabile, dunque Knut specificò:

“Kite surf sigh-nifica surf con atacatø aquiløne, tu vola come uccelø sul mare con ventø! Iø sono apasionatø! In Norvegiå facio con molto fredo ma sono in club…”

La presunta romana finalmente parlò:

“Sorry, I don’t speak Italian!”

 “No problem! I can speak English too!”, rispose Knut illuminandosi visto che parlava un ottimo inglese: in quel frangente poteva ben permettersi una pausa dallo studio dell’italiano, che per qualche mese aveva assorbito gran parte del suo tempo libero.

“Maró! Che ddu cojoni questo!”, ribattè quella distogliendo lo sguardo dal finestrino; dopodichè si piazzò in testa una cuffia rosa gigante che le copriva le intere orecchie e fece partire una musica a tutto volume, riconoscibile come tormentone da discoteca finanche dalla distanza alla quale si trovava Knut. Quest’ultimo non aveva compreso l’ultima frase, ma dai lunghi mesi che aveva passato esercitandosi con l’italiano, studiandone la cultura e leggendo i giornali online, aveva capito che la ragazza voleva discutere con lui su un problema a quanto pare molto sentito nel bel paese, cioè quello dei marò prigionieri in India. Ma siccome lui su quell’argomento non era molto preparato, non aveva capito esattamente cosa avesse chiesto la ragazza, e comunque quella non lo poteva più sentire con quelle cuffie enormi, decise di chiudere lì quella conversazione, tornando a guardare fuori dal finestrino dalla sua posizione privilegiata. Si assicurò di ostruire la vista delle nuvole con il suo corpo, di modo che quell’italiana non molto simpatica non potesse più vedere nulla; quella però sembrava prestare attenzione unicamente alla sua musica di bassa lega e non sembrava per la veritá granché scossa da quell’invasione finestrínica.

Knut arrivò nel terminal di Roma Fiumicino verso le sette di sera e controllò i display con le informazioni sui voli: il suo aereo per Terina era in perfetto orario, con partenza prevista alle 20:15. Continuò a leggere le informazioni sui monitor per migliorare il suo italiano: erano molto utili perché ogni manciata di secondi cambiavano dall’italiano all’inglese dandogli modo di imparare nuovi vocaboli, prima di comparire anche in russo e in cinese, o giapponese, vacci a capire. Apprese tra l’altro che a Fiumicino l’attesa media dei bagagli era di 15 minuti: nonostante sembrassero orgogliosi di comunicarlo, in piccolo era riportato che da quella statistica era stato escluso il 10% dei casi peggiori. Augurandosi di non rientrare in quel 10%, Knut si allontanò dai display pensando al modo migliore di impiegare la mezzoretta che lo separava dal suo imbarco per Terina.

Decise di ingannare l’attesa concedendosi la prima vera esperienza del viaggio, ovvero il primo caffè su suolo italico: dopo una lunga passeggiata per l’aeroporto scelse il bar più affollato, dove sicuramente gli avrebbero preparato un ottimo caffè. Anzi, aveva deciso che aveva voglia di un cappuccino, bello cremoso come lo aveva visto nei documentari sull’Italia, e del quale il cugino Øyvind gli aveva raccontato meraviglie.

Suo cugino era andato cinque anni fa a fare kite surf in Calabria per dimenticare la moglie dalla quale aveva appena divorziato, e quel connubio di mare, dieta mediterranea e sport, insieme al fatto di essere stato trattato come una rockstar solo per il fatto di essere scandinavo, gli erano piaciuti così tanto che aveva deciso di comprare una casetta in collina a pochi km dal mare ad un prezzo ridicolo con l’intenzione di soggiornarvici spesso, cosa che avrebbe effettivamente fatto negli anni successivi.  Quell’estate, di ritorno dall’ennesima vacanza calabrese, Øyvind aveva dato le chiavi della sua casa italiana al più giovane cugino: stavolta era quest’ultimo ad avere bisogno di un bel viaggio, visto che era stato appena mollato da Ingrid, sua storica fidanzata dai tempi della scuola. Proprio a causa della sua ragazza Knut non aveva viaggiato molto fino a quel momento, perché Ingrid lo aveva costretto a passare tutte le vacanze insieme in Norvegia o al limite in Finlandia, amando i ghiacciai, i boschi e la solitudine. La sua ex aveva una personalitá molto oscura, che ben si accompagnava alla sua attività di bassista in un gruppo black metal. Alcuni lettori sapranno che il black metal rappresenta la frangia più oltranzista dell’heavy metal, e che i suoi gruppi più rappresentativi provengono appunto dalla Norvegia, terra che ben si adatta alle atmosfere glaciali evocate dai brani di questo sottogenere musicale.
Nei gruppi black metal, oltre a fare musica estrema, ci si pittura il volto di bianco e nero tipo i Kiss in versione più minacciosa, si corre in mutande d’inverno nei boschi norvegesi per ritrovare il contatto con la natura e le divinitá pagane, e occasionalmente si brucia qualche antica chiesa cristiana in legno o si inneggia simpaticamente all’anticristo. Ingrid aveva investito parte del suo tempo in ciascuna di quelle attività, e quell’oscura evoluzione della sua personalità mal si congeniava con Knut, che in fondo era ingenuo e bonaccione oltre ad essere un fan di Bon Jovi, e così dopo molti anni la loro storia, per forza di cose, era arrivata al termine.

Ma Knut faticava a dimenticare la sua bella Ingrid, e difatti per il giorno della sua partenza indossava una maglietta regalatagli dalla sua ex dei Mayhem, band norvegese di simpaticoni dei quali il cantante si suicidò dopo aver lasciato un biglietto ‘scusa per il sangue’ a casa del chitarrista, che a sua volta venne poi fatto fuori a pugnalate dal bassista. Quella band si sarà sciolta, penserete voi: invece no, in qualche modo i Mayhem erano ancora attivi nonostante il solo batterista fosse rimasto fuori dall’aldilà e dal carcere, e Ingrid ne era una fan sfegatata. Knut detestava i Mayhem, ma si sentiva in qualche modo protetto da quell’antico pegno d’amore che indossava, anche se oramai svuotato del sentimento che rappresentava in origine. Ma se il detto ‘chiodo scaccia chiodo’ era vero, quel viaggio era la perfetta occasione per dimenticare Ingrid e il suo mondo buio, sostituendola nel cuore con la dolce solarità di una ragazza mediterranea, possibilmente mora e dalla carnagione scura per rimarcare ulteriormente che Knut con le depresse smorte, pallide ed emaciate aveva chiuso.

E quel cappuccino che si accingeva ad ordinare non era dunque una semplice bevanda calda: era il simbolo del distacco dalle cause della sua sofferenza, dalla sua nuova routine quotidiana fatta di solitudine e rimpianti; era la prima porta che si apriva su un nuovo mondo, un mondo soleggiato, permeato di colori e vitalità, che aspettava soltanto che lui ci si tuffasse a capofitto, come poco prima il suo aereo aveva fatto in un mare di nuvole.
 Knut si avvicinò dunque al bancone e diede convinto l’ordine che sentiva che da quel momento in poi avrebbe fatto voltare pagina alla sua vita, scandendo con tono autoritario ciascuna sillaba:

“Uno capucinø per favor!”

Il barista stava preparando degli altri caffè e si girò seccato:

“Guardi che deve fare lo scontrino prima!”

Poco male, avrebbe potuto rimandare quel momento topico di pochi secondi. Knut si mise in fila per fare lo scontrino, e quando arrivò il suo turno riprovò, questa volta meno convinto:

“Uno capucinø per favor…”

Il cassiere iniziò a sghignazzare senza farsi troppi problemi, e rispose:

“Aoh, me fate ammazzá me fate! Er cappuccino alle sette e mezza de sera? Ma pensa che mi fija se stava a sposà a uno de voi tedeschi che aveva conosciuto a Mallorca, meno male che c’ha ripensato! Mannacc... Un euro e cinquanta, grazie.”

Knut registrò il commento malevolo senza ribattere, pagó e si avvicinó nuovamente al barista. Aprí il taccuino appoggiandolo sul bancone e scrisse: ‘Cappuccino dopo 7’, disegnandoci a fianco un cartello di divieto d’accesso. ‘A Roma sii romano’, diceva un proverbio, ed il romano avrebbe fatto Knut; furbescamente mostrò al barista lo scontrino sventolandolo senza fargli leggere cosa ci fosse scritto sopra, ed ordinò:

“Uno café, per favor!”

Il barista gli rispose che ‘arivava subito subito come l’aerei’, e dopo pochi secondi gli mise davanti una tazzina striminzita. Knut allungò il collo sul bancone per scrutare all’interno della tazzina e constatò che era piena solo per un terzo, quindi restò in attesa che il barista gliela riempisse. Ma quello mise nella macchinetta una nuova tazza per fare il caffè ad un altro avventore, e non sembrava proprio che avesse intenzione di prestargli ulteriori servizi. Dopo un minuto di attesa Knut tossì e disse:

“Scusa, mio café, per favor!”

“Aoh, sta lá, ma che no o vedi? Ma che sei, cecato? O rincojionito?”

Intanto il signore di fianco a lui aveva ricevuto una simile tazzina semivuota, l’aveva buttata giù di colpo, aveva fatto schioccare le labbra in modo sonoro facendo sobbalzare Knut, e se n’era andato.

Questa faccenda non era chiara a Knut, il quale aveva chiesto un caffè e non un espresso. In Norvegia era abituato a certi bicchieroni di carta pieni di un liquido che a vedersi sarebbe potuto benissimo passare per thé, non a quella specie di crema densissima. Il nostro non aveva comunque nessuna intenzione di fare la figura dello straniero che non è capace di fare fuori un vero caffè italiano e, imitando il signore che se n’era appena andato, lo scandinavo buttò giú di colpo il ristretto senza nemmeno aggiungere zucchero. La sua bocca venne inondata dal fortissimo liquido: poteva sentirne le molecole attaccarsi prepotentemente al suo palato, alle sue gengive, e annidarglisi senza chiedere permesso sotto la  lingua, sullo smalto dentale, sulle pareti dell’esofago.

“Uaaah questo è buonø”, disse mentre pensava che quelle molecole sarebbero rimaste lá vita natural durante, tanto se ne sentiva permeato. Aveva ragione Øyvind: sarebbe stato davvero un viaggio pieno di avventure, scoperte e sorprese quello!

E il povero Knut non poteva ancora sapere fino a che punto il cugino avesse avuto ragione…