© Domenic Baham |
Era curioso come ci fosse sempre qualcuno di inferiore più a sud di te. Knut Ivar Mykelbøst veniva da Bergen, incantevole, moderna e spesso bagnata città affacciata sui fiordi norvegesi, e come i suoi concittadini si sentiva superiore a quei pastoracci del Telemark, regione rurale della Norvegia del Sud. Gli abitanti del Telemark, a loro volta, ritenevano i danesi i loro cugini poveri. In Danimarca poi si sentivano superiori rispetto ai confinanti tedeschi, che si sentivano superiori agli austriaci, che si sentivano superiori ai milanesi, che Knut in questo momento stava sorvolando a bordo del volo Copenaghen – Roma, il quale non era il primo e non sarebbe stato l’ultimo aereo che prendeva, quel giorno. I milanesi poi si sentivano superiori ai romani, che si sentivano superiori ai calabresi, che si sentivano superiori ai maghrebini, che si sentivano superiori alle popolazioni nomadi del Sahara. Poi quei beduini vagando nel deserto probabilmente nemmeno lo sapevano chi ci fosse sopra o sotto di loro, quindi questa strana catena si interrompeva. Chissá se funzionava allo stesso modo in tutti i continenti? Ricordando le sue numerose partite a Risiko, Knut si chiese se le popolazioni piú fiere in Asia e America vivessero rispettivamente nella Kamchatka e nei Territori del Nord-Ovest del Canada. E nell’emisfero australe come funzionava? Magari dopo l’equatore quella legge si invertiva, e i popoli più a sud godevano di maggiore considerazione. In effetti il Sudafrica era messo meglio dello Zimbabwe, e l’Australia era messa meglio dell’Indonesia: gli sembrava una teoria sensata, che meritava di essere approfondita di persona. Aprí il suo taccuino ad una pagina cripticamente titolata ‘Ting å gjøre før jeg er 30’ e scrisse: ‘Patagonia’.
Knut
Ivar era lo stereotipo dello scandinavo: i suoi capelli biondissimi e piuttosto
lunghi gli incorniciavano un volto dalla carnagione chiara, dominato da due
grandi occhi del colore dell’acqua profonda dei fiordi norvegesi. Le sue spalle
erano ampie e regolari, e il suo fisico slanciato era palesato dalle ginocchia appoggiate
al sedile che aveva di fronte: lo spazio che aveva a disposizione per le sue
gambe in quel modello vecchiotto di DC9 dell’Alitalia era per lui limitato.
Un’ispida barbetta, anch’essa bionda, gli conferiva un certo fascino bohemien,
senza però farlo apparire trasandato. Vicino a Knut era seduta un’affascinante
ragazza mora con il trucco piuttosto pesante, probabilmente romana, che
distrattamente in quel momento stava osservando le nuvole fuori dalla cabina
passeggeri. Lo scandinavo, che si trovava vicino al finestrino e quindi nella
traiettoria dello sguardo della giovane, si rivolse a lei in un italiano
approssimativo, mostrandole quello che aveva appena scritto sul block notes:
“Questø
in norvegese sigh-nifica ‘cosa da fare prima trenta ani’, io faccio lista.
Questø qui cancelatø è ‘partire per viagiø esoticø da solo’… io adesso vado a
Calabria! Mi hanno detto che come Messicø ma più vicinø. Sole, mare, pistole, peperoncinø...”
Knut mimò una pistola che faceva fuoco
ripiegando il pollice della mano sinistra sull’indice disteso e sorrise. La
ragazza guardò il block notes sotto il suo naso limitandosi a ruotare gli occhi
verso il basso, prima di riportarli sul finestrino senza rispondere: sembrava
più interessata ad osservare i candidi cumuli nei quali l’aereo si stava
tuffando come in un mare di panna montata. Knut non si perse d’animo e
continuò:
“Mio
cuginø prestato casa in Calabria, io viaggiare solo. Io in mare sport kite
surf, conosci?”, disse chiudendo le mani sopra la sua testa su una barra
orrizzontale immaginaria, mimando di essere alle prese con un kite surf. Suo
cugino Øyvind gli aveva assicurato che, al solo nominare quello sport,
qualunque pulzella mediterranea sarebbe caduta ai suoi piedi, soprattutto pronunciandolo
con accento nordico. La ragazza stavolta lo guardò ma sembrava più scocciata
che altro: forse non aveva fatto l’accento abbastanza nordico? O più
probabilmente la sua interlocutrice ignorava cosa fosse un kite surf? La
seconda opzione sembrava la più probabile, dunque Knut specificò:
“Kite
surf sigh-nifica surf con atacatø aquiløne, tu vola come uccelø sul mare con
ventø! Iø sono apasionatø! In Norvegiå facio con molto fredo ma sono in club…”
La
presunta romana finalmente parlò:
“Sorry,
I don’t speak Italian!”
“No problem! I can speak English too!”,
rispose Knut illuminandosi visto che parlava un ottimo inglese: in quel
frangente poteva ben permettersi una pausa dallo studio dell’italiano, che per
qualche mese aveva assorbito gran parte del suo tempo libero.
“Maró!
Che ddu cojoni questo!”, ribattè quella distogliendo lo sguardo dal finestrino;
dopodichè si piazzò in testa una cuffia rosa gigante che le copriva le intere
orecchie e fece partire una musica a tutto volume, riconoscibile come
tormentone da discoteca finanche dalla distanza alla quale si trovava Knut. Quest’ultimo
non aveva compreso l’ultima frase, ma dai lunghi mesi che aveva passato
esercitandosi con l’italiano, studiandone la cultura e leggendo i giornali
online, aveva capito che la ragazza voleva discutere con lui su un problema a
quanto pare molto sentito nel bel paese, cioè quello dei marò prigionieri in
India. Ma siccome lui su quell’argomento non era molto preparato, non aveva
capito esattamente cosa avesse chiesto la ragazza, e comunque quella non lo
poteva più sentire con quelle cuffie enormi, decise di chiudere lì quella
conversazione, tornando a guardare fuori dal finestrino dalla sua posizione
privilegiata. Si assicurò di ostruire la vista delle nuvole con il suo corpo,
di modo che quell’italiana non molto simpatica non potesse più vedere nulla; quella
però sembrava prestare attenzione unicamente alla sua musica di bassa lega e
non sembrava per la veritá granché scossa da quell’invasione finestrínica.
Knut
arrivò nel terminal di Roma Fiumicino verso le sette di sera e controllò i
display con le informazioni sui voli: il suo aereo per Terina era in
perfetto orario, con partenza prevista alle 20:15. Continuò a leggere le
informazioni sui monitor per migliorare il suo italiano: erano molto utili
perché ogni manciata di secondi cambiavano dall’italiano all’inglese dandogli
modo di imparare nuovi vocaboli, prima di comparire anche in russo e in cinese,
o giapponese, vacci a capire. Apprese tra l’altro che a Fiumicino l’attesa
media dei bagagli era di 15 minuti: nonostante sembrassero orgogliosi di
comunicarlo, in piccolo era riportato che da quella statistica era stato
escluso il 10% dei casi peggiori. Augurandosi di non rientrare in quel 10%, Knut
si allontanò dai display pensando al modo migliore di impiegare la mezzoretta
che lo separava dal suo imbarco per Terina.
Decise
di ingannare l’attesa concedendosi la prima vera esperienza del viaggio, ovvero
il primo caffè su suolo italico: dopo una lunga passeggiata per l’aeroporto
scelse il bar più affollato, dove sicuramente gli avrebbero preparato un ottimo
caffè. Anzi, aveva deciso che aveva voglia di un cappuccino, bello cremoso come
lo aveva visto nei documentari sull’Italia, e del quale il cugino Øyvind gli
aveva raccontato meraviglie.
Suo
cugino era andato cinque anni fa a fare kite surf in Calabria per dimenticare
la moglie dalla quale aveva appena divorziato, e quel connubio di mare, dieta
mediterranea e sport, insieme al fatto di essere stato trattato come una
rockstar solo per il fatto di essere scandinavo, gli erano piaciuti così tanto
che aveva deciso di comprare una casetta in collina a pochi km dal mare ad un
prezzo ridicolo con l’intenzione di soggiornarvici spesso, cosa che avrebbe
effettivamente fatto negli anni successivi. Quell’estate, di ritorno dall’ennesima vacanza
calabrese, Øyvind aveva dato le chiavi della sua casa italiana al più giovane cugino:
stavolta era quest’ultimo ad avere bisogno di un bel viaggio, visto che era
stato appena mollato da Ingrid, sua storica fidanzata dai tempi della scuola. Proprio
a causa della sua ragazza Knut non aveva viaggiato molto fino a quel momento,
perché Ingrid lo aveva costretto a passare tutte le vacanze insieme in Norvegia
o al limite in Finlandia, amando i ghiacciai, i boschi e la solitudine. La sua
ex aveva una personalitá molto oscura, che ben si accompagnava alla sua
attività di bassista in un gruppo black metal. Alcuni lettori sapranno che il
black metal rappresenta la frangia più oltranzista dell’heavy metal, e che i
suoi gruppi più rappresentativi provengono appunto dalla Norvegia, terra che ben
si adatta alle atmosfere glaciali evocate dai brani di questo sottogenere
musicale.
Nei
gruppi black metal, oltre a fare musica estrema, ci si pittura il volto di bianco
e nero tipo i Kiss in versione più minacciosa, si corre in mutande d’inverno
nei boschi norvegesi per ritrovare il contatto con la natura e le divinitá
pagane, e occasionalmente si brucia qualche antica chiesa cristiana in legno o
si inneggia simpaticamente all’anticristo. Ingrid aveva investito parte del suo
tempo in ciascuna di quelle attività, e quell’oscura evoluzione della sua personalità
mal si congeniava con Knut, che in fondo era ingenuo e bonaccione oltre ad
essere un fan di Bon Jovi, e così dopo molti anni la loro storia, per forza di
cose, era arrivata al termine.
Ma
Knut faticava a dimenticare la sua bella Ingrid, e difatti per il giorno della sua
partenza indossava una maglietta regalatagli dalla sua ex dei Mayhem, band
norvegese di simpaticoni dei quali il cantante si suicidò dopo aver lasciato un
biglietto ‘scusa per il sangue’ a casa del chitarrista, che a sua volta venne
poi fatto fuori a pugnalate dal bassista. Quella band si sarà sciolta,
penserete voi: invece no, in qualche modo i Mayhem erano ancora attivi
nonostante il solo batterista fosse rimasto fuori dall’aldilà e dal carcere, e
Ingrid ne era una fan sfegatata. Knut detestava i Mayhem, ma si sentiva in
qualche modo protetto da quell’antico pegno d’amore che indossava, anche se
oramai svuotato del sentimento che rappresentava in origine. Ma se il detto
‘chiodo scaccia chiodo’ era vero, quel viaggio era la perfetta occasione per
dimenticare Ingrid e il suo mondo buio, sostituendola nel cuore con la dolce
solarità di una ragazza mediterranea, possibilmente mora e dalla carnagione
scura per rimarcare ulteriormente che Knut con le depresse smorte, pallide ed
emaciate aveva chiuso.
E
quel cappuccino che si accingeva ad ordinare non era dunque una semplice
bevanda calda: era il simbolo del distacco dalle cause della sua sofferenza,
dalla sua nuova routine quotidiana fatta di solitudine e rimpianti; era la
prima porta che si apriva su un nuovo mondo, un mondo soleggiato, permeato di
colori e vitalità, che aspettava soltanto che lui ci si tuffasse a capofitto,
come poco prima il suo aereo aveva fatto in un mare di nuvole.
Knut si avvicinò dunque al bancone e diede
convinto l’ordine che sentiva che da quel momento in poi avrebbe fatto voltare
pagina alla sua vita, scandendo con tono autoritario ciascuna sillaba:
“Uno
capucinø per favor!”
Il
barista stava preparando degli altri caffè e si girò seccato:
“Guardi
che deve fare lo scontrino prima!”
Poco
male, avrebbe potuto rimandare quel momento topico di pochi secondi. Knut si
mise in fila per fare lo scontrino, e quando arrivò il suo turno riprovò,
questa volta meno convinto:
“Uno
capucinø per favor…”
Il
cassiere iniziò a sghignazzare senza farsi troppi problemi, e rispose:
“Aoh,
me fate ammazzá me fate! Er cappuccino alle sette e mezza de sera? Ma pensa che
mi fija se stava a sposà a uno de voi tedeschi che aveva conosciuto a Mallorca,
meno male che c’ha ripensato! Mannacc... Un euro e cinquanta, grazie.”
Knut
registrò il commento malevolo senza ribattere, pagó e si avvicinó nuovamente al
barista. Aprí il taccuino appoggiandolo sul bancone e scrisse: ‘Cappuccino dopo
7’, disegnandoci a fianco un cartello di divieto d’accesso. ‘A Roma sii romano’,
diceva un proverbio, ed il romano avrebbe fatto Knut; furbescamente mostrò al
barista lo scontrino sventolandolo senza fargli leggere cosa ci fosse scritto
sopra, ed ordinò:
“Uno
café, per favor!”
Il
barista gli rispose che ‘arivava subito subito come l’aerei’, e dopo pochi
secondi gli mise davanti una tazzina striminzita. Knut allungò il collo sul
bancone per scrutare all’interno della tazzina e constatò che era piena solo
per un terzo, quindi restò in attesa che il barista gliela riempisse. Ma quello
mise nella macchinetta una nuova tazza per fare il caffè ad un altro avventore,
e non sembrava proprio che avesse intenzione di prestargli ulteriori servizi. Dopo
un minuto di attesa Knut tossì e disse:
“Scusa,
mio café, per favor!”
“Aoh,
sta lá, ma che no o vedi? Ma che sei, cecato? O rincojionito?”
Intanto
il signore di fianco a lui aveva ricevuto una simile tazzina semivuota, l’aveva
buttata giù di colpo, aveva fatto schioccare le labbra in modo sonoro facendo
sobbalzare Knut, e se n’era andato.
Questa
faccenda non era chiara a Knut, il quale aveva chiesto un caffè e non un
espresso. In Norvegia era abituato a certi bicchieroni di carta pieni di un
liquido che a vedersi sarebbe potuto benissimo passare per thé, non a quella
specie di crema densissima. Il nostro non aveva comunque nessuna intenzione di
fare la figura dello straniero che non è capace di fare fuori un vero caffè
italiano e, imitando il signore che se n’era appena andato, lo scandinavo buttò
giú di colpo il ristretto senza nemmeno aggiungere zucchero. La sua bocca venne
inondata dal fortissimo liquido: poteva sentirne le molecole attaccarsi
prepotentemente al suo palato, alle sue gengive, e annidarglisi senza chiedere
permesso sotto la lingua, sullo smalto
dentale, sulle pareti dell’esofago.
“Uaaah
questo è buonø”, disse mentre pensava che quelle molecole sarebbero rimaste lá
vita natural durante, tanto se ne sentiva permeato. Aveva ragione Øyvind: sarebbe
stato davvero un viaggio pieno di avventure, scoperte e sorprese quello!
E
il povero Knut non poteva ancora sapere fino a che punto il cugino avesse avuto
ragione…
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