“Ma quantu minchiati”, esclamò il vicecommissario
Gianfranco Longo davanti alla televisione. Non ce la faceva più a seguire gli
episodi del famoso commissario di Vigata in TV: ma quando mai nella vita reale
ti capitavano casi del genere, traboccanti di femme fatale (e chi lo sa il
plurale) che vengono a cenare in veranda a casa tua, e l’amica svedese stangona
di 2 metri che quando ti serve un passaggio ti scarrozza in giro per il paese?
Lui al commissariato di Terina aveva a che fare quando gli andava male con
brutti ceffi barbuti del peso nell’ordine del quintale, e quando gli andava
bene con brutti ceffi sbarbati del peso nell’ordine del quintale.
“Ma vafanculu”, ribadí mentre il commissario
baciava una donna che aveva provato a farlo secco un quarto d’ora prima,
spegnendo la TV e accendendo una sigaretta per compensare. Ma poi l’avevate
visto l’ufficio di Montalbano, e pure quello del suo vice? Ci potevi giocare a
calcetto. Longo invece stava in uno stanzino che era grande la metà, e che
poteva occupare solo a metà, perché doveva pure condividerlo con l’agente
Antonio Santo, che tra l’altro non sopportava. Anzi solo pensare al suo collega
gli faceva aumentare il nervosismo.
“Papà, papà, papà!” gridavano all’unisono i
quattro figli di Longo, di età compresa dai 6 ai 12 anni, accompagnati dalla
cugina dirimpettaia che li aveva invitati a fare merenda insieme ai cuginetti.
Volevano cenare, giustamente le loro offerte al dio della fame non potevano
essere placate da una semplice merendina al cioccolato, e la mamma ancora non
era tornata dal turno di lavoro serale per cucinare. I maschi si chiamavano
all’anagrafe Tom, Sylvester e Johnny, mentre la piccolina di 6 anni si chiamava
Julia. Questo capita quando hai una moglie appassionata di attori hollywoodiani,
in ordine di preferenza Cruise, Stallone, Depp e Roberts: che poi manco lui si
ricordava come si scrivevano sti nomi strampalati, e i figli alla fine li
chiamava Tommaso, Silvestro, Gianni e Giulia. Ogni volta che doveva compilare
moduli ufficiali dove doveva inserire i dati sensibili dei figli delegava tutto
alla moglie, era pure giusto visto che si era fissata che Francesco no che è
noioso, Paolo ci si chiama già il cugino, Marco no che poi lo chiamano “Marco
da a castagna” (sta cosa veramente l’aveva sentita dire solo a sua moglie),
Antonio ci si chiama il figlio del vicino e pare che li copiamo. E si, mo ci
inventiamo un nome nuovo per ogni bambino che nasce. Ma, comunque si
chiamassero, quei bambini erano la sua piú grande gioia e la sua più grande
ricchezza, ma al tempo stesso lo facevano uscire pazzo… mentre continuavano a
gridare “Papà fame”, “dov’è mamma”, “voglio acqua” e “voglio un gelato”,
trovavano il tempo di tirarsi i capelli, piangere, provare a sfilare dalla
tasca il telefono al papà per giocarci al gioco degli uccellini che distruggono
i maiali e guardare su un tablet un cartone animato di Peppa Pig, non si sa
come simultaneamente. Mettendo a scaldare nel forno le lasagne avanzate dalla
sera prima, il commissario pensò che per fortuna l’indomani era un giorno
lavorativo, e cosí si sarebbe potuto riposare nu pocu il cervello, salvo
chiamate per rapine, sparatorie e cose varie. Ma mica potevano capitargli tutte
a lui, no? Pure i criminali avranno figli, domani che li rimanderanno a scuola
si vorranno riposare pure loro, o no? La moglie Antonietta li raggiunse per
cena, e la mezza dozzina di cristiani divorò le lasagne in pochi minuti.
Una volta a letto, il commissario astutò la
luce ma non riusciva ad addormentarsi. Sta faccenda del commissario Montalbano
gli aveva fatto nchianare i cazzi. Che poi non s’era capito, quelli della
televisione stavano in Sicilia, mica a Milano. Eppure non avevano mai problemi,
sempre macchine a disposizione, autisti, uscieri, rinforzi che arrivavano
subito… la realtà lavorativa che lui conosceva era ben diversa. Ogni giorno era
una lotta: non solo contro i criminali, che a Terina erano di tutti i tipi,
organizzati e cani sciolti, pesci grandi e pesci piccoli, intoccabili amici dei
politici e poveri disperati… ma anche contro la burocrazia, che rendeva ogni
indagine lenta e ferruginosa; contro l’impotenza verso chi, sotto minaccia,
veniva a chiedere protezione senza sapere che i mezzi della polizia per
garantirla non erano adeguati; contro lo Stato, che da una parte gli lasciava
le volanti senza benzina e dall’altro pretendeva che venissero sgominate
famiglie della ‘ndrangheta un giorno sí e uno no, salvo poi prendersi i meriti
per l’operato di lui e dei suoi colleghi quando nonostante mille difficoltà ci
riuscivano sul serio, a sbatterne uno dentro…ma domani non sarebbe stato cosí,
se lo sentiva. Domani avrebbe passato una tranquilla giornata di ordinaria
amministrazione, ne aveva proprio bisogno. Un caffè, due chiacchiere, un giro
di ronda, due controlli, mettere due firme e mezzo pacchetto di sigarette con
Tommaso. Con quel pensiero rassicurante, riuscí ad abbandonarsi tra le braccia
di Morfeo, ignorando tra l’altro chi fosse. Perché il commissario Longo era
risoluto, caparbio e coraggioso, ma di studiare non ne aveva mai voluto sapere.
E che ce ne fotteva a quello che stava rapinando la gioielleria sul corso
principale della città quanti libri c’ha la Divina Commedia? Le qualità che gli
erano servite per arrestarlo qualche settimana prima erano state ben altre.
Longo Gianfranco era pragmatico, anche se non sapeva cosa volesse dire. Ste
cose erano inutili, nel suo lavoro.
Il vicecommissario era di statura medio-bassa
e la sua capigliatura l’aveva abbandonato tanti e tanti anni prima, ed ormai
nemmeno si ricordava più che volesse dire passarsi una mano tra i capelli.
Nonostante ciò, aveva un certo richiamo da uomo rude che, insieme agli occhi
grigio-verdi ed al naturale fascino per la divisa, lo aiutava a non sfigurare
affatto in giro per Terina. La mattina dopo, poi, era anche favorito da un
sorriso smagliante: si alzò stranamente di buonumore, si fece la barba ed
arrivò di buon mattino in commissariato, senza sospettare che quello stato di grazia
non sarebbe durato a lungo.
Una volta entrato nel suo ufficio, a suo dire
minuscolo, trovò l’agente Santo seduto alla scrivania intento a riempire dei
moduli al computer con la bocca aperta. Santo si occupava principalmente di
sbrigare pratiche burocratiche, che spesso ingarbugliava all’inverosimile
sbagliando nomi e invertendo date, ed era capace di stare con la bocca aperta
senza proferire parola a scrivere, sbagliare, riscrivere e risbagliare moduli e
pratiche per una giornata intera. E quello che mandava il commissario Longo su
tutte le furie non era tanto l’intrinseca inefficienza dell’appuntato, quanto
quella dannata bocca aperta tutto il giorno. Il buongiorno di Longo fu:
“Mmmh, mmh… Già ccà si?”
Il collega lo ignorò, continuando a battere
sulla tastiera. Dopo cinque minuti Longo perse la calma:
“Ma insomma, u chiudi stu scifu o no?” sbottò.
L’appuntato, sempre senza guardarlo, gli
rivolse per la prima volta la parola:
“Ma che vuol dire scifo? Devo chiudere la
finestra? Ti fa freddo?”
“Se, a finestra i mammata!”, ribatté Longo.
“Ma sei di Milano tu? Di Torino? Di Roncobilaccio, i nduvu si?”, provò ad
abbassare il tono della voce: “aspetta nu minutu mu mi calmo, ca sinnò…”,
respirò a fondo prima di continuare:
“Allora, lo scifo sarebbe chilla cuadara dove
ci entra nu maiale sanu…”
“Cuadara…?”
“NA TIELLA, CUMU A CHIAMI!!”
“Tiella…?”
“COLLÉ, NA PENTOLA! Mannaia all’anima i cui!
Ma cumu c’ha campatu ccà fino a 45 anni? Ma ccú chilla pistola ca tiani picchí
un ti ci spari che fai nu favore a tutti quanti? E chiudi stu scifu: CHIUDI LA
BOCCA! Se favello in italiano mi capisci, se? Madonna du u Carminu!”
L’agente pensò di chiedere cosa volesse dire
“favellare”, visto che l’esiguo tempo che Longo aveva dedicato allo studio
nella vita sembravano millenni, se paragonato a quello che vi aveva investito
lui; alla fine però decise di chiudere la bocca e tacere. Ma tempo per Longo di
attaccare la giacca all’appendiabiti e prendere posto alla scrivania, che la
cavità orale di Santo era nuovamente spalancata, mostrando una fila di denti in
verità bianchissimi, che tra l’altro facevano stridore con la carnagione molto
scura del gracile collega. E pure questo faceva innervosire Longo, la cui dentatura
dopo 30 anni di Marlboro (seppur “Laiz”) aveva assunto un colorito giallo
paglierino.
“O Santo, ti giuru supra a mmaculata
santissima che mi fai venire cchiú nirbusu tu di na caffettiera da 10 cullata
sana sana!”, sbottò il vicecommissario per l’ennesima volta, venendo ignorato
per l’ennesima volta. Ma come c’era finito in polizia questo qua? E poi, tra
tutte le persone al mondo, perché lo costringevano a stare in ufficio con lui?
Aveva chiesto dapprima un ufficio per lui solo, ma gli era stato negato per
insufficienza di fondi. Dopodiché aveva chiesto almeno il trasferimento
nell’ufficio del suo amico agente scelto Tommaso Palazzo, ma il commissario si
era opposto perché secondo lui “le persone diverse si compensano”. E si, tutti
pissicologi e pissichiatri erano là, tutti prufissuri Ed ecco che dopo manco
cinque minuti già la sua giornata era rovinata, visto che lui doveva stara là a
“compensare” Santo. Gli avrebbe fatto volentieri na compensata di scaffi, a lui
e a quell’altro che lo costringeva a dividerci l’ufficio.
Che poi a dire il vero un lato positivo
l’agente ce l’aveva: aveva dato a Longo una maniera di sfogarsi verbalmente
senza urtare la sensibilità di chicchessia. Chi passava per i corridoi della centrale
o incontrava Longo per strada aveva un’alta probabilità di sentire riecheggiare
la frase ‘mannaia a Santu!’, che sembrava blasfemia ma blasfemia non era.
Mentre guardava la foto dei figli nel portafoglio per calmarsi un attimo, il
commissario sentí avvicinarsi fuori dalla porta l’inconfondibile passo
strascicato del commissario. L’ufficio di Longo e Santo era in fondo al corridoio,
dunque non vi erano dubbi che si stesse recando proprio da loro. L’idea della
mattinata tranquilla (benché già rovinata dalla mera presenza di Santo)
cominciava a svanire dalla testa del vice. E difatti, la porta si spalancò, e
l’autorevole e rispettato commissario Randelli riempí la stanza con la sua
presenza, ed aprí la bocca come l’appuntato Santo, ma stavolta con un motivo
valido, cioè per parlare:
“O Longo, devi andare urgentemente a
Spagnamiglio, sembra sia successo un casino…”
“Dove gli zingari? Che si sono fottuti
stavolta?”, rispose Longo.
“Longo, sono stati esplosi dei colpi di arma
da fuoco”, riprese il commissario, “ed è già successo qualche ora fa, intorno
alle 15: sembra che qualcuno abbia sentito sti spari, ma prima di decidersi a
chiamare c’abbia messo una vita, qua pure dell’ombra loro hanno paura. Non
abbiamo altri dettagli. Portati l’agente Santo e muovetevi.”
Longo si alzò in piedi ed uscí dalla stanza,
socchiudendo la porta e chiedendo a bassa voce:
“Commissà, permettete una parola… ma non posso
portarmi a Tommaso? Se ci sono stati spari magari c’è qualche situazione
pericolosa, e Santo non l’ha mai cacciata na pistola dalla fondina in vita sua!
Non sa proprio come si utilizza! È come se mandate nu muraturi a riparare un
impianto elettrico… anzi, manco: è come se mandate uno ca un sa proprio
nenti-nenti-zero-sutta-zero a riparare un impianto elettrico! Come se ci
mandati nu cani, cumu se un ci mandati a nissunu, a stessa cosa!”
La reazione di Randelli fu iraconda:
“L’agente Palazzo è ammalato, smettila di
perdere tempo e muoviti! Hai capito che hanno sparato e non c’è tempo da
perdere, si? Tu fai quello che ti dico e basta! Pure se ti dico di portarti
Santo in villeggiatura in Sila, tu non fiati e te lo porti in Sila! Va bene?”
“Commissà, poi però con mia moglie ci parrati
vua: se mi porto sto sciacqualattughe in vileggiatura chilla mi stacca a capu
prima a mia e poi a bua… a parte che personalmente noi preferiamo la marina,
perché poi i bambini alla muntagna dopo nu pocu…”
“MUOVITI!!"
Maledicendo il suo compagno di ufficio per la
quarta volta da quando si era alzato, Longo rifece capolino nell’ufficio:
“O Santo, appizza a machina e jamunindi…”.
Mentre l’agente, sempre senza rispondere né
guardarlo negli occhi, si alzava di scatto e gli passava davanti uscendo dalla
stanza, Longo l’apostrofò:
“Ma cum’è ca un t’ammali mmai tu?”