21 gennaio 2017

Sangu - capitolo 2: il vicecommissario Longo





 “Ma quantu minchiati”, esclamò il vicecommissario Gianfranco Longo davanti alla televisione. Non ce la faceva più a seguire gli episodi del famoso commissario di Vigata in TV: ma quando mai nella vita reale ti capitavano casi del genere, traboccanti di femme fatale (e chi lo sa il plurale) che vengono a cenare in veranda a casa tua, e l’amica svedese stangona di 2 metri che quando ti serve un passaggio ti scarrozza in giro per il paese? Lui al commissariato di Terina aveva a che fare quando gli andava male con brutti ceffi barbuti del peso nell’ordine del quintale, e quando gli andava bene con brutti ceffi sbarbati del peso nell’ordine del quintale.

 “Ma vafanculu”, ribadí mentre il commissario baciava una donna che aveva provato a farlo secco un quarto d’ora prima, spegnendo la TV e accendendo una sigaretta per compensare. Ma poi l’avevate visto l’ufficio di Montalbano, e pure quello del suo vice? Ci potevi giocare a calcetto. Longo invece stava in uno stanzino che era grande la metà, e che poteva occupare solo a metà, perché doveva pure condividerlo con l’agente Antonio Santo, che tra l’altro non sopportava. Anzi solo pensare al suo collega gli faceva aumentare il nervosismo.

“Papà, papà, papà!” gridavano all’unisono i quattro figli di Longo, di età compresa dai 6 ai 12 anni, accompagnati dalla cugina dirimpettaia che li aveva invitati a fare merenda insieme ai cuginetti. Volevano cenare, giustamente le loro offerte al dio della fame non potevano essere placate da una semplice merendina al cioccolato, e la mamma ancora non era tornata dal turno di lavoro serale per cucinare. I maschi si chiamavano all’anagrafe Tom, Sylvester e Johnny, mentre la piccolina di 6 anni si chiamava Julia. Questo capita quando hai una moglie appassionata di attori hollywoodiani, in ordine di preferenza Cruise, Stallone, Depp e Roberts: che poi manco lui si ricordava come si scrivevano sti nomi strampalati, e i figli alla fine li chiamava Tommaso, Silvestro, Gianni e Giulia. Ogni volta che doveva compilare moduli ufficiali dove doveva inserire i dati sensibili dei figli delegava tutto alla moglie, era pure giusto visto che si era fissata che Francesco no che è noioso, Paolo ci si chiama già il cugino, Marco no che poi lo chiamano “Marco da a castagna” (sta cosa veramente l’aveva sentita dire solo a sua moglie), Antonio ci si chiama il figlio del vicino e pare che li copiamo. E si, mo ci inventiamo un nome nuovo per ogni bambino che nasce. Ma, comunque si chiamassero, quei bambini erano la sua piú grande gioia e la sua più grande ricchezza, ma al tempo stesso lo facevano uscire pazzo… mentre continuavano a gridare “Papà fame”, “dov’è mamma”, “voglio acqua” e “voglio un gelato”, trovavano il tempo di tirarsi i capelli, piangere, provare a sfilare dalla tasca il telefono al papà per giocarci al gioco degli uccellini che distruggono i maiali e guardare su un tablet un cartone animato di Peppa Pig, non si sa come simultaneamente. Mettendo a scaldare nel forno le lasagne avanzate dalla sera prima, il commissario pensò che per fortuna l’indomani era un giorno lavorativo, e cosí si sarebbe potuto riposare nu pocu il cervello, salvo chiamate per rapine, sparatorie e cose varie. Ma mica potevano capitargli tutte a lui, no? Pure i criminali avranno figli, domani che li rimanderanno a scuola si vorranno riposare pure loro, o no? La moglie Antonietta li raggiunse per cena, e la mezza dozzina di cristiani divorò le lasagne in pochi minuti.

Una volta a letto, il commissario astutò la luce ma non riusciva ad addormentarsi. Sta faccenda del commissario Montalbano gli aveva fatto nchianare i cazzi. Che poi non s’era capito, quelli della televisione stavano in Sicilia, mica a Milano. Eppure non avevano mai problemi, sempre macchine a disposizione, autisti, uscieri, rinforzi che arrivavano subito… la realtà lavorativa che lui conosceva era ben diversa. Ogni giorno era una lotta: non solo contro i criminali, che a Terina erano di tutti i tipi, organizzati e cani sciolti, pesci grandi e pesci piccoli, intoccabili amici dei politici e poveri disperati… ma anche contro la burocrazia, che rendeva ogni indagine lenta e ferruginosa; contro l’impotenza verso chi, sotto minaccia, veniva a chiedere protezione senza sapere che i mezzi della polizia per garantirla non erano adeguati; contro lo Stato, che da una parte gli lasciava le volanti senza benzina e dall’altro pretendeva che venissero sgominate famiglie della ‘ndrangheta un giorno sí e uno no, salvo poi prendersi i meriti per l’operato di lui e dei suoi colleghi quando nonostante mille difficoltà ci riuscivano sul serio, a sbatterne uno dentro…ma domani non sarebbe stato cosí, se lo sentiva. Domani avrebbe passato una tranquilla giornata di ordinaria amministrazione, ne aveva proprio bisogno. Un caffè, due chiacchiere, un giro di ronda, due controlli, mettere due firme e mezzo pacchetto di sigarette con Tommaso. Con quel pensiero rassicurante, riuscí ad abbandonarsi tra le braccia di Morfeo, ignorando tra l’altro chi fosse. Perché il commissario Longo era risoluto, caparbio e coraggioso, ma di studiare non ne aveva mai voluto sapere. E che ce ne fotteva a quello che stava rapinando la gioielleria sul corso principale della città quanti libri c’ha la Divina Commedia? Le qualità che gli erano servite per arrestarlo qualche settimana prima erano state ben altre. Longo Gianfranco era pragmatico, anche se non sapeva cosa volesse dire. Ste cose erano inutili, nel suo lavoro.

Il vicecommissario era di statura medio-bassa e la sua capigliatura l’aveva abbandonato tanti e tanti anni prima, ed ormai nemmeno si ricordava più che volesse dire passarsi una mano tra i capelli. Nonostante ciò, aveva un certo richiamo da uomo rude che, insieme agli occhi grigio-verdi ed al naturale fascino per la divisa, lo aiutava a non sfigurare affatto in giro per Terina. La mattina dopo, poi, era anche favorito da un sorriso smagliante: si alzò stranamente di buonumore, si fece la barba ed arrivò di buon mattino in commissariato, senza sospettare che quello stato di grazia non sarebbe durato a lungo.

Una volta entrato nel suo ufficio, a suo dire minuscolo, trovò l’agente Santo seduto alla scrivania intento a riempire dei moduli al computer con la bocca aperta. Santo si occupava principalmente di sbrigare pratiche burocratiche, che spesso ingarbugliava all’inverosimile sbagliando nomi e invertendo date, ed era capace di stare con la bocca aperta senza proferire parola a scrivere, sbagliare, riscrivere e risbagliare moduli e pratiche per una giornata intera. E quello che mandava il commissario Longo su tutte le furie non era tanto l’intrinseca inefficienza dell’appuntato, quanto quella dannata bocca aperta tutto il giorno. Il buongiorno di Longo fu:
“Mmmh, mmh… Già ccà si?”
 Il collega lo ignorò, continuando a battere sulla tastiera. Dopo cinque minuti Longo perse la calma:
“Ma insomma, u chiudi stu scifu o no?” sbottò.
L’appuntato, sempre senza guardarlo, gli rivolse per la prima volta la parola:
“Ma che vuol dire scifo? Devo chiudere la finestra? Ti fa freddo?”
“Se, a finestra i mammata!”, ribatté Longo. “Ma sei di Milano tu? Di Torino? Di Roncobilaccio, i nduvu si?”, provò ad abbassare il tono della voce: “aspetta nu minutu mu mi calmo, ca sinnò…”, respirò a fondo prima di continuare:
“Allora, lo scifo sarebbe chilla cuadara dove ci entra nu maiale sanu…”
“Cuadara…?”
“NA TIELLA, CUMU A CHIAMI!!”
“Tiella…?”
“COLLÉ, NA PENTOLA! Mannaia all’anima i cui! Ma cumu c’ha campatu ccà fino a 45 anni? Ma ccú chilla pistola ca tiani picchí un ti ci spari che fai nu favore a tutti quanti? E chiudi stu scifu: CHIUDI LA BOCCA! Se favello in italiano mi capisci, se? Madonna du u Carminu!”

L’agente pensò di chiedere cosa volesse dire “favellare”, visto che l’esiguo tempo che Longo aveva dedicato allo studio nella vita sembravano millenni, se paragonato a quello che vi aveva investito lui; alla fine però decise di chiudere la bocca e tacere. Ma tempo per Longo di attaccare la giacca all’appendiabiti e prendere posto alla scrivania, che la cavità orale di Santo era nuovamente spalancata, mostrando una fila di denti in verità bianchissimi, che tra l’altro facevano stridore con la carnagione molto scura del gracile collega. E pure questo faceva innervosire Longo, la cui dentatura dopo 30 anni di Marlboro (seppur “Laiz”) aveva assunto un colorito giallo paglierino.

“O Santo, ti giuru supra a mmaculata santissima che mi fai venire cchiú nirbusu tu di na caffettiera da 10 cullata sana sana!”, sbottò il vicecommissario per l’ennesima volta, venendo ignorato per l’ennesima volta. Ma come c’era finito in polizia questo qua? E poi, tra tutte le persone al mondo, perché lo costringevano a stare in ufficio con lui? Aveva chiesto dapprima un ufficio per lui solo, ma gli era stato negato per insufficienza di fondi. Dopodiché aveva chiesto almeno il trasferimento nell’ufficio del suo amico agente scelto Tommaso Palazzo, ma il commissario si era opposto perché secondo lui “le persone diverse si compensano”. E si, tutti pissicologi e pissichiatri erano là, tutti prufissuri Ed ecco che dopo manco cinque minuti già la sua giornata era rovinata, visto che lui doveva stara là a “compensare” Santo. Gli avrebbe fatto volentieri na compensata di scaffi, a lui e a quell’altro che lo costringeva a dividerci l’ufficio.
 
Che poi a dire il vero un lato positivo l’agente ce l’aveva: aveva dato a Longo una maniera di sfogarsi verbalmente senza urtare la sensibilità di chicchessia. Chi passava per i corridoi della centrale o incontrava Longo per strada aveva un’alta probabilità di sentire riecheggiare la frase ‘mannaia a Santu!’, che sembrava blasfemia ma blasfemia non era. Mentre guardava la foto dei figli nel portafoglio per calmarsi un attimo, il commissario sentí avvicinarsi fuori dalla porta l’inconfondibile passo strascicato del commissario. L’ufficio di Longo e Santo era in fondo al corridoio, dunque non vi erano dubbi che si stesse recando proprio da loro. L’idea della mattinata tranquilla (benché già rovinata dalla mera presenza di Santo) cominciava a svanire dalla testa del vice. E difatti, la porta si spalancò, e l’autorevole e rispettato commissario Randelli riempí la stanza con la sua presenza, ed aprí la bocca come l’appuntato Santo, ma stavolta con un motivo valido, cioè per parlare:
“O Longo, devi andare urgentemente a Spagnamiglio, sembra sia successo un casino…”
“Dove gli zingari? Che si sono fottuti stavolta?”, rispose Longo.
“Longo, sono stati esplosi dei colpi di arma da fuoco”, riprese il commissario, “ed è già successo qualche ora fa, intorno alle 15: sembra che qualcuno abbia sentito sti spari, ma prima di decidersi a chiamare c’abbia messo una vita, qua pure dell’ombra loro hanno paura. Non abbiamo altri dettagli. Portati l’agente Santo e muovetevi.”

Longo si alzò in piedi ed uscí dalla stanza, socchiudendo la porta e chiedendo a bassa voce:
“Commissà, permettete una parola… ma non posso portarmi a Tommaso? Se ci sono stati spari magari c’è qualche situazione pericolosa, e Santo non l’ha mai cacciata na pistola dalla fondina in vita sua! Non sa proprio come si utilizza! È come se mandate nu muraturi a riparare un impianto elettrico… anzi, manco: è come se mandate uno ca un sa proprio nenti-nenti-zero-sutta-zero a riparare un impianto elettrico! Come se ci mandati nu cani, cumu se un ci mandati a nissunu, a stessa cosa!”
La reazione di Randelli fu iraconda:
“L’agente Palazzo è ammalato, smettila di perdere tempo e muoviti! Hai capito che hanno sparato e non c’è tempo da perdere, si? Tu fai quello che ti dico e basta! Pure se ti dico di portarti Santo in villeggiatura in Sila, tu non fiati e te lo porti in Sila! Va bene?”
“Commissà, poi però con mia moglie ci parrati vua: se mi porto sto sciacqualattughe in vileggiatura chilla mi stacca a capu prima a mia e poi a bua… a parte che personalmente noi preferiamo la marina, perché poi i bambini alla muntagna dopo nu pocu…”
“MUOVITI!!"

Maledicendo il suo compagno di ufficio per la quarta volta da quando si era alzato, Longo rifece capolino nell’ufficio:
“O Santo, appizza a machina e jamunindi…”.
Mentre l’agente, sempre senza rispondere né guardarlo negli occhi, si alzava di scatto e gli passava davanti uscendo dalla stanza, Longo l’apostrofò:
“Ma cum’è ca un t’ammali mmai tu?”

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